domenica 22 settembre 2013

"L'enigma di Kaspar Hauser" (1974)

"L'enigma di Kaspar Hauser" (1974) (Jeder für sich und Gott gegen alle, RFT, 1974)
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Interpreti principali: Bruno S., Walter Ladengast, Brigitte Mira
Produzione: Filmverlag der Autoren, Werner Herzog Filmproduktion, Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF)
Distribuzione: N.A.

TRAMA: Un giovane, tenuto in prigionia per un lungo e imprecisato lasso di tempo, viene abbandonato in una piazza di Norimberga: a causa della sua totale ignoranza e della genuina ottusità mostrata, il municipio decide prima di sfruttarlo per i propri interessi economici, trasformandolo in un attrazione da fiera, per poi lasciarlo in custodia a un benevolo professore, quest'ultimo deciso a conferirgli un'esistenza e un comprendonio quantomeno collettivo.


CRITICA: Come François Truffaut fece con Il ragazzo selvaggio (1970), l'ormai rodato Werner Herzog qui affronta la storia di un altro rifiuto della società civilizzata. A differenza del personaggio raccontato dal regista francese, Kaspar Hauser, questo il nome insegnatogli dal suo guardiano di cella prima dello scagionamento, si mostra fin da subito un inconsapevole anticonformista, il quale, seppur l'eventuale deformazione cerebrale dichiarata con rapida disinvoltura nel finale, riesce a decidere, con il candore di un fanciullo e la proattività di un ipersensibile, ciò che secondo il suo metodo di compresione può ritenersi non tanto giusto o sbagliato, bensì vantaggioso a livello esistenziale, come ad esempio il rifiuto della Fede comandata poiché non percepita o percepibile, pertanto inesistente.

Il vero enigma del protagonista, dunque, non è da ricercare nel suo sconosciuto luogo di nascita o nella potenziale famiglia di provenienza, come faranno assiduamente i suoi nuovi concittadini, i quali addirittura cercheranno il perdono morale alle loro bestialità nelle spicciole enucleazioni di tipo scientifico, bensì nell'indecifrabilità delle sue sofferte fantasie a occhi aperti, di quel fenomenale mostro chiamato emotività che lo assale a ogni nuova rivelazione affrontata, delle sue chimere di inventato scrittore delle quali riesce, appunto, a idealizzare e affrontare il solo incipit.

Un film girato con peculiare poetica, per il quale Herzog sostiene la causa del protagonista con estrema obbiettività, senza alterare in alcun modo la struttura o, se volete, le conseguenze morali delle sue traversie, perciò lasciando alla sola onestà dello spettatore la responsabilità di giudizio rispetto a quanto accaduto (la scena del teatrino dei freak è, appunto, una chiara dimostrazione degli intenti del regista). Seppur gli episodi, stavolta, vengano stilati attraverso un susseguirsi di salti temporali non propriamente decifrabili, l'opera risulta assolutamente diretta e intellegibile, in particolar modo grazie alla sofferta recitazione dell'attore non professionista Bruno S. (al secolo Bruno Schleinstein), sensazionale scoperta per il giovane Herzog, il quale lo richiamerà per La ballata di Stroszek (1977).

VOTO: 4 su 5

lunedì 16 settembre 2013

"I figli del deserto" (1933)


"I figli del deserto" (Sons of the Desert, USA, 1933)
Regia: William A. Seiter
Sceneggiatura: Frank Craven
Interpreti principali: Stan Laurel, Oliver Hardy, Charley Chase, Mae Busch, Dorothy Christy, Lucien Littlefield
Produzione: Hal Roach Studios
Distribuzione: Variety Film

TRAMA: Nel corso di una quantomai solenne cerimonia, Laurel e Hardy assicurano la loro presenza al convegno annuale dei "Figli del deserto", associazione di stampo massonico alla quale sono regolarmente iscritti. Dovranno ovviamente far prima i conti con le rispettive mogli, ritrovandosi infine costretti a improvvisare uno scompigliato e ostentato teatrino delle menzogne. Morale: "la sincerità è la miglior virtù".


CRITICA: Un filmino piacevole, basato in principal modo sui già  consolidati cliché della coppia, qui in totale armonia comunicativa. Se da una parte si rimarrà tediati dalla messa in scena, o addirittura infastiditi dalla misoginia della quale si fa instancabilmente sfoggio, dall'altra ci si soffermerà a riflettere su di alcune primordiali sperimentazioni linguistiche, tipiche delle future commedie nere (es.: il volonteroso tassista, accidentalmente e ostinatamente preso di mira dai due), nonché sulle capacità espressive dei protagonsiti, in questo caso affiancati da un temerario duo femminile composto da Mae Busch, per la quarta volta burbera moglie di Ollio (la sua prima apparizione risale ai tempi della comica Amale e piangi del 1927), e Dorothy Christy, quest'ultima doppiata in italiano da una giovanissima Wanda Tettoni.
Al solito, non c'è da aspettarsi momenti di ilarità cerebrale, né tantomeno puerile, dalle malefatte di questi due benevoli sovversivi, ma al contrario un esuberante montage di risate che, schiettamente e senza pretesa alcuna, punta diritto all'animo bambinesco di ognuno di noi.

VOTO: 3 su 5

domenica 15 settembre 2013

"Il mattatore di Hollywood" (1961)


"Il mattatore di Hollywood" (The Errand Boy, USA, 1961)
Regia: Jerry Lewis
Sceneggiatura: Jerry Lewis, Bill Richmond
Interpreti principali: Jerry Lewis, Brian Donlevy, Howard McNear
Produzione: Jerry Lewis Productions, Paramount Pictures
Distribuzione: Paramount Pictures

TRAMA: Allarmati dai constatati sprechi di capitale, i dirigenti della casa di produzione cinematografica Paramutual assumono in qualità  di spia un quantomai imbranato attacchino, il quale, nella sua candida inconsapevolezza, oltre al non riuscire nell'intento prefisso, porterà il disordine all'interno degli studios, divenendo infine una nuova stella del comico.


CRITICA: Jerry Lewis, qui al suo terzo lungometraggio da regista, si immette sulla strada della satira di costume tentando di distruggere la consuetudine e i modus operandi della fiorente industria hollywoodiana, facendo pieno affidamento a un canovaccio di scontate situazioni slapstick applicate al contesto e accodate l'una dopo l'altra, con un uso quasi criminoso della dissolvenza in nero, senza cognizione alcuna dell'intreccio di partenza, il quale si andrà a perdere, incontrollato e incontrollabile, nel finale alquanto melanconico. Al solito, Lewis fa della semplicità d'animo la colonna portante dell'emotività del protagonista, il quale, solitario pagliaccio ignaro dell'importanza delle sue costernazioni, ogni sera è costretto a fare a botte con il proprio letto. C'è chi lo erge a punto di riferimento strutturale per il futuro Hollywood Party (1968), con il quale condivide in realtà la sola gioconda (non tanto, nel caso di Lewis) spensieratezza del protagonista, ma del quale non ha neanche l'ombra dell'astuta e dissacrante comicità: se il film di Blake Edwards è paragonabile a una serie di colpi di mannaia sullo show business americano, l'opera di Lewis può considerasi un elegante match di fioretto, eseguito da un virtuoso della risata con attenta esclusione di colpi bassi.

VOTO: 3 su 5

sabato 14 settembre 2013

"...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà" (1981)


"...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà" (Italia, 1981)
Regia: Lucio Fulci
Soggetto: Dardano Sacchetti
Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Giorgio Mariuzzo, Lucio Fulci
Interpreti principali: Catriona MacColl, David Warbeck, Cinzia Monreale, Antoine Saint-John, Veronica Lazar
Produzione: Fulvia Film
Distribuzione: Medusa Distribuzione

TRAMA: In Louisiana, durante gli anni 20, un pittore accusato di esoterismo viene sfigurato e murato, per mano di un gruppo di furibondi paesani, nel sotterraneo dell'hotel ove risiede. Cinquant'anni dopo, una giovane ragazza newyorchese riceve in eredità l'hotel stesso: tentandone la ristrutturazione, aprirà involontariamente una delle "sette porte" dell'Inferno, scatenando così una tremenda e quantomai mortale reazione a catena.


CRITICA: Un'opera decisamente più ricercata, questa scritta da Fulci assieme a Sacchetti e Mariuzzo, con la quale si tenta una lezione di misticismo senza dover necessariamente rinunciare all'artificiosità dei testi e, logicamente, alla sovrabbondante dose di effetti speciali richiesta dal genere. Fulci gira con estrema grazia questo teatro degli orrori (il flashback introduttivo virato seppia ne è un esempio), si impegna nel tentativo di cavare qualcosa di tecnicamente valido con quel poco che gli è concesso e, nonostante il conformismo dell'intreccio spacciato per ambivalenza, riesce nell'intento prefissato, collocando gli ambienti e i personaggi all'interno della giusta cornice, conferendogli una dimensione e una profondità visiva meritoria. Nonostante ciò, risulta alquanto arduo tirare le somme dinanzi la sequenza conclusiva qui proposta, durante la quale i due protagonisti, la MacColl e Warbeck (lo Sean di Giù la testa, NdR), varcano il confine con gli Inferi ritrovandosi, come recita la voce fuori campo, ad affrontare "il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile", frase, quest'ultima, dal grande effetto didascalico, ma dallo scarso valore narrativo.

VOTO: 2 su 5

venerdì 13 settembre 2013

"Anni di piombo" (1981)


"Anni di piombo" (Die bleierne Zeit, RFT, 1981)
Regia: Margarethe von Trotta
Sceneggiatura: Margarethe von Trotta
Interpreti principali: Jutta Lampe, Barbara Sukowa, Rüdiger Vogler
Produzione: Bioskop Film, Sender Freies Berlin (SFB)
Distribuzione: Gaumont

TRAMA: La vita di Julianne, collaboratrice presso un giornale femminista, viene stravolta dalle vicissitudini della sorella Marianne, arrestata in seguito a un attentato svoltosi per conto di un gruppo di terroristi appartenente all'estrema sinistra tedesca. Durante le numerose visite al carcere, le due sorelle avranno modo di discutere delle vicine e al contempo distanti opinioni etiche e politiche, queste ultime guarnite dai numerosi ricordi di infanzia che le han viste, anche in tal caso, a cavallo di un'instabile equidistanza. Quando Marianne morirà nella sua cella in circostanze misteriorse, Julianne darà inizio a un'inconcludente indagine, costretta, infine, a prendersi cura del figlio della sorella, al quale racconterà la verità sulla madre.


CRITICA: Con questo lungometraggio, Margarethe Von Trotta non si mostra interessata ad affrontare la strada del film di denuncia, non vuole raccontare e recriminare la situazione e i fenomeni sociopolitici del proprio paese. Seppur la crudeltà di determinate sequenze assuma, per forza di cose, un valore visivo oltremodo tangibile e la presenza delle autorità costituite sia parte integrante degli ambienti affrontati, la cineasta tedesca, qui al quarto lungometraggio, servendosi della soffocante aria scaturita dalla rivoluzione sociale insorta, affronta il rabbioso rapporto di due sorelle divise dai discordanti ideali politici e, al contempo, saldamente legate dalle condivise reminiscenze adolescenziali, in un quantomai rigido valzer dei flashback che vede le suddette muoversi in un sottile scambio di ruoli determinato, appunto, dalle continue analessi introdotte all'interno della narrazione. Volontariamente o meno, le protagoniste basano le proprie azioni sui principi acquisiti dagli insegnamenti dell'autoritario padre pastore e dalle esperienze condivise in gioventù, per lo più collegate al tema delle ingiustizie verso i popoli, materia quest'ultima affrontata quotidianamente da entrambe le donne in maniera discrepante, se messe a confronto. Ed è appunto fra i significati attribuiti in educazione alle parole "protezione" e "violenza", "legalità" e "illegalità", che le protagoniste tenteranno di raggiungere un compromesso affettivo, proposito quest'ultimo bruscamente interrotto dal vetro della sala dei colloqui e dal tragico avvenimento finale. Perché è di affetti che qui si narra, e la Von Trotta non ha il benché minimo dubbio, al riguardo.

VOTO: 4 su 5